mercoledì 27 maggio 2020

IL SENSO DELLA PHILOSOPHISCHE PRAXIS


Apollo, come è noto, non era solamente il Dio di tutte le arti, ma anche il Dio del Sole che, attraverso la propria onniveggenza, tutto poteva illuminare. Ecco perché nell’antichità, quando si desiderava conoscere qualcosa di più attorno ad una qualsiasi questione, ci si poteva recare al tempio edificato in suo onore a Delfi. Così fece, tra gli altri, un certo Chilone e fu proprio lui, stando a quanto ci dice Porfirio, ad ottenere quello che sarebbe diventato il più celebre responso mai emesso da un oracolo: «Conosci te stesso». Tre parole che, non a caso, furono iscritte sulla stessa facciata del tempio e che, oltre a voler marcare la stessa linea di confine sussistente tra lo spazio sacro e quello profano, sembravano anche voler trasmettere, a tutti coloro che avessero deciso di varcare quella soglia, un messaggio di questo tipo: «Se volete davvero entrare in questo spazio puro ed incontaminato, avendo accesso a quell’illuminazione e a quella conoscenza intuitiva che il Dio del Sole stesso simboleggia, fatelo con l’intenzione di prendere coscienza di ciò che siete e non aspettatevi nulla di più dal momento che non esiste niente di più prezioso! In caso contrario allontanatevi da questo tempio e non azzardatevi mai più a violare questo spazio sacro!». Tre parole che, dunque, contengono molto più di una bonaria avvertenza o di una interessante esortazione da cui trarre ispirazione. Socrate, che per molti è il vero padre della filosofia, fu forse il primo a comprendere veramente questa massima tanto da metterla al centro del proprio costante esercizio di pensiero. Secondo il filosofo ateniese, infatti, solo se ci riconosciamo per quello che siamo veramente, prendendo atto innanzi tutto della nostra ignoranza e conseguentemente di tutti gli altri nostri limiti, possiamo riconciliarci con noi stessi e raggiungere un più alto livello di conoscenza. Non è un caso, tra l’altro, che quasi tutti gli studiosi siano d’accordo nel riconoscere che, attraverso questa sentenza, Apollo volesse intimare agli uomini proprio di «Riconoscere la propria limitatezza e finitezza». In altre parole, insomma, il Dio del Sole in persona ci stava dicendo questo: «Smettetela di deformare la vostra stessa immagine attraverso le vostre vigliacche menzogne e accettatevi per quello che siete, ovvero nient’altro che degli esseri fallibili, imperfetti e mortali!». Noi esseri umani, invece, incuranti di questa prescrizione divina, continuiamo a fare di tutto per commettere lo stesso errore di Prometeo che ha disobbedito al volere divino donando agli uomini il fuoco. Proprio a causa di questo suo presuntuoso atto di ribellione, Prometeo viene prima catturato, poi incatenato ad una rupe ed infine scagliato in un burrone senza fondo. E questa sembra essere la sorte riservata anche a tutti coloro che, illudendosi di poter sottomettere ogni cosa alla propria stessa volontà, tentano vanamente di ribellarsi alla condizione mortale in cui si trovano ad essere confinati per volere di un ordine superiore. Domanda: cosa c’entra tutto questo discorso con la Philosophische Praxis? Risposta: tutto. Qual è, infatti, il senso più profondo e più autentico della necessità che si cela dietro ad ogni tentativo, per quanto inconsapevole e maldestro, di entrare in dialogo con un consulente filosofico, se non precisamente quello di conoscere meglio sé stessi, accettandosi il più possibile per quello che si è?! Il presente scritto si propone di sviscerare proprio questo profondo legame sussistente tra la Philosophische Praxis e la conoscenza di sé. Per esigenze di ordine espositivo il discorso sarà articolato e si svilupperà prendendo le mosse da nove domande, alle quali seguiranno due critiche: la prima sarà rivolta, in generale, ai consulenti filosofici, mentre la seconda sarà rivolta, nello specifico, a me stesso. Quest’ultima critica, tra l’altro, si concentrerà sul laboratorio filosofico che ho condotto alla biblioteca comunale di Cavallino Treporti (Venezia) su invito del collega e amico Davide Ubizzo.


1)   Cosa significa conoscere noi stessi?

Conoscere noi stessi significa riconoscere, smascherare e distruggere le illusioni che ognuno di noi tende a formare innanzi tutto rispetto a sé stesso.


2)   Che relazione sussiste tra la conoscenza di sé e l’altrui visione del mondo?

La conoscenza di sé si configura come una condizione indispensabile per prendere coscienza, non solo della propria visione del mondo, ma anche di quella altrui. Le distorsioni che operiamo sulla nostra stessa immagine, infatti, si ripercuotono necessariamente su tutto ciò che prendiamo in considerazione, producendo inevitabili fraintendimenti ed errori di valutazione che non ci permettono nemmeno di comprendere l’altrui sistema di pensiero.


3)   Perché abbiamo bisogno delle illusioni?

Abbiamo bisogno delle illusioni perché non riusciamo ad accettarci per quello che siamo.


4)   Cosa bisogna fare per smascherare le proprie illusioni?

Per smascherare le proprie illusioni è necessario, prima di ogni altra cosa, riconciliarsi con sé stessi, che in sostanza significa accettare quella immagine che vediamo riflessa nello specchio per quello che semplicemente risulta essere, senza bisogno di abbellirla nel tentativo di nascondere, sia a noi stessi che agli altri, tutte le nostre innumerevoli imperfezioni.


5)   Cosa tentiamo di fare solitamente? E perché lo facciamo?

Non riuscendo a tollerare il nostro stesso viso privo di trucco, tentiamo di ingannarci costantemente o abbassando lo sguardo, oppure indossando una maschera e convincendoci che sia proprio quello, in realtà, il nostro vero volto. Non diversamente da quanto facevano i prigionieri dentro la caverna di cui ci parla Platone nel suo celebre mito, passiamo la vita a fissare delle ombre mendaci e sfuggenti che non sono altro che il riflesso delle nostre stesse illusioni. Ecco come nasce quel velo di Maya che si frappone tra noi e la realtà! Un velo che noi stessi tessiamo giorno dopo giorno e che continua a separarci dalla cosiddetta «verità» che nel suo significato etimologico significa proprio disvelamento. Proviamo vergogna per noi stessi non diversamente da come Adamo ed Eva si vergognarono della propria nudità dopo aver disobbedito a Dio. Ed ecco che sentiamo l’irresistibile urgenza di coprire il nostro stesso volto con quella maschera che indossiamo di fronte al nostro stesso specchio. Tutto per non prendere atto dei nostri stessi limiti! Tutto per non accettare la nostra transeunte e misera condizione mortale! Ecco perché siamo diventati degli illusionisti tanto più abili quanto vigliacchi! Ecco il motivo per cui siamo finiti col vivere come esperti latitanti che cercano di sottrarsi al proprio stesso sguardo! Ecco la ragione per la quale siamo incessantemente sballottati da una parte all'altra, strattonati da desideri che ci spingono a rincorrere irraggiungibili miraggi e, nel contempo, soffocati dalla paura per fantasmi che noi stessi abbiamo inventato! Ed è così che, mentre abbelliamo la nostra esistenza con simulacri sempre più appariscenti, sprofondiamo inesorabilmente dentro un’invisibile prigione all’interno della quale ci sentiamo sempre più soli, perduti e miseri.


6)   Qual è il compito del consulente filosofico?

Aiutare chiunque a vedere di sé quello che non vuole vedere; mostrare all'altro il punto cieco del proprio sguardo esortandolo a pensare ciò che dalla sua prospettiva, in quanto inaccettabile, risulta impensabile: questo è il compito di ogni consulente filosofico.


7)   Cosa si intende per dialogo nell’ambito della Philosophische Praxis?

Il dialogo che il consulente filosofico utilizza come strumento per aiutare il consultante a conoscere un po’ di più il proprio sistema di pensiero non è uno scambio di opinioni. Non sempre, però, è facile riconoscere la differenza tra le due cose. Ecco, dunque, le caratteristiche che trasformano un generico scambio di parole nel dialogo che avviene nella Philosophische Praxis:

A.    Comprensione ed esplicitazione della visione del mondo dell’interlocutore.
B.    Rilevazione ed esplicitazione dei presupposti contenuti in quella visione.
C.    Messa in discussione di quegli stessi presupposti.


8)     Qual è il massimo risultato a cui può aspirare un consulente filosofico?

Attraverso alcune domande poste di solito solo dopo aver esplicitato i presupposti e i punti di incoerenza contenuti nel discorso, il consulente potrebbe riuscire a spronare il consultante a sbalzare temporaneamente fuori dal proprio sistema di pensiero. Quando ciò avviene il consultante si guadagna la concreta possibilità di ridefinire in modo permanente, anche se magari soltanto parziale, la propria visione del mondo. È questo il massimo risultato a cui può aspirare un consulente filosofico.


9)   Cosa può indurre il consulente filosofico a compromettere
il buon svolgimento della consulenza?

Tra i diversi fattori che possono inibire il buon svolgimento della consulenza rientrano sicuramente le paure e i desideri stessi del consulente filosofico. Tra le paure più ricorrenti ci sono, in particolare, quella di deludere le altrui aspettative e quella di non riuscire a capire l’altro. Tra i desideri più frequenti, invece, ci sono quello di affermare la propria visione del mondo e quello di evitare ogni forma di dissidio con il proprio interlocutore. Un altro fattore di rischio presente all’interno del processo dialogico è rappresentato dal desiderio di voler raggiungere un qualche risultato, come per esempio quello di ottenere un cambio di paradigma all’interno del sistema di pensiero del consultante. In questo caso, infatti, l’ossessione della meta diventa il motivo principale del fallimento del viaggio stesso. Molto meglio non aspettarsi nulla.


Una critica

Molti consulenti filosofici sembrano convinti che il senso della Philosophische Praxis sia quello di creare le condizioni per favorire uno scambio di pensieri intelligenti a proposito di una certa questione. Altri credono che buona parte del compito del consulente coincida con la capacità di stimolare un dibattito con idee interessanti, originali e possibilmente di propria fattura. Ci sono alcuni che confondono perfino un laboratorio filosofico con una mini lezione magistrale seguita da un dibattito democratico all’interno del quale ogni partecipante è libero di dire più o meno tutto quello che vuole, purché non manchi di rispetto a nessuno. Come se non bastasse c’è addirittura chi scambia la consulenza filosofica individuale per una sorta di lezione privata esistenziale attraverso cui esortare il consultante ad adottare le proprie idee sul mondo. Peccato che nulla di tutto ciò abbia davvero a che fare con il senso della Philosophische Praxis! È tanto divertente quanto grottesco osservare quante persone incapaci di dialogare ci siano tra coloro che, almeno sulla carta, dovrebbero essere gli esperti del dialogo. Molti di loro, attraversano le loro iniziative, sembrano più che altro interessati a sfruttare il loro ruolo di facilitatori per ricavarsi un invisibile pulpito dal quale elargire al mondo le loro argute sentenze. Facilitatori, certo, ma del loro stesso narcisismo! Un narcisismo che coccolano e soddisfano attraverso i loro orgogliosi e altisonanti monologhi che spacciano astutamente per premesse necessarie al confronto. Più che filosofi, dunque, tronfi opinionisti carichi di superbia e di autocompiacimento. Più che consulenti, quindi, arroganti intellettuali che si atteggiano a fuoriclasse del pensiero in cerca del proprio pubblico. In realtà si tratta semplicemente di persone insicure, fragili, impaurite e sofferenti che, attraverso queste loro messe in scena intellettuali, tentano di racimolare il massimo riconoscimento sociale possibile nel tentativo di prolungare la loro faticosa convivenza con le proprie menzogne. Stiamo parlando, insomma, di persone che non si accettano per quello che sono e che attraverso la Philosophische Praxis tentano di distorcere ancora di più quell’immagine di sé rispetto alla quale non sono in grado di reggere il confronto. Filosofi consulenti che, nella stragrande maggioranza dei casi, sarebbero i primi ad aver bisogno di usufruire della consulenza filosofica in qualità di consultanti ma che sono troppo spaventati e orgogliosi anche soltanto per poterlo ammettere. Ed è proprio questa, tra l’altro, l’essenza del bizzarro paradosso nel quale versa la nostra stessa associazione; un’associazione formata da individui che, invece di affrontare le proprie svariate questioni irrisolte attraverso il dialogo, si proclamano consulenti, tentando di far fare agli altri ciò che essi stessi, per primi, non sono per nulla in grado di fare.


Un’autocritica

Ritengo che il laboratorio filosofico che ho tenuto lo scorso 16 gennaio 2020 a Cavallino Treporti, sia da ritenersi un fallimento perché non sono riuscito a far dialogare nessuno. La visione del mondo dei partecipanti, infatti, è rimasta in gran parte insondata e i presupposti su cui poggiavano le loro affermazioni, generalmente, non sono stati nemmeno esplicitati. Si è trattato tutt’al più di un interessante scambio di opinioni. E il fatto che il laboratorio sia stato apprezzato dalla maggior parte dei partecipanti mi sembra un’ulteriore prova del suo stesso fallimento. Le persone, infatti, sono solite provare una certa soddisfazione quando riescono a sfogarsi dicendo liberamente tutto quello che vogliono. Più volte mi è successo di trovarmi di fronte a persone che, al termine di un mio laboratorio, pur non avendo realizzato un dialogo con nessuno durante tutto il corso della serata, sono venute a ringraziarmi, rivolgendomi giudizi molto positivi, arricchiti da generosi complimenti, solo perché si erano sentite ascoltate, prese in considerazione e valorizzate in ciò che avevano detto. Ed è stata soprattutto la mia stessa paura di deludere queste altrui aspettative che conosco molto bene, la causa per cui non sono riuscito a lavorare in modo più rigoroso. La verità è che per diventare un consulente filosofico devo ancora fare i conti con diverse questioni irrisolte dentro di me. Ed è esattamente quello che sto facendo, in modo sempre più assiduo e costante, da un po’ di tempo a questa parte: un lavoro incessante attraverso il quale sto cominciando ad intravedere quell’immagine riflessa nello specchio che anche io, come tutti, ho sempre tentato di deformare.